ideazione e regia: Alfonso Santagata
con: Alfonso Santagata, Claudio Morganti, Silvia Pasello e Carlo Nuccioni
manichini: Carlo Isola
Venezia “Biennale Teatro”, Teatro Goldoni, 20 ottobre 1984
All’inizio c’è la tempesta, tuoni e pioggia. Quattro lampadine sono agitate dal vento. Siamo in una città sepolta, un luogo forse mai esistito. Anche qui si parte da situazioni elementari e si costruiscono labirinti di percorsi possibili, di strade e di incroci dove i due attori si muovono ora seguendo il filo della memoria e dei ricordi, ora inseguendo ombre di personaggi scelti nella letteratura teatrale, ora trasfigurando situazioni esistenziali e comportamentali presi dall’oggi. In Mucciana City due estranei o casuali ospiti entrano in una sorta di teatro cimitero, sui fragori di una tempesta, si portano dietro calore, vita, sentimenti e soprattutto il teatro. Gli abitanti di questa città morta sono colti di sprovvista: uno scappa via, altri diventano vittime passive dei loro giochi teatrali, una donna partecipa alle loro azioni, li provoca, li orienta, ne diventa la guida. Luci da arredo anni cinquanta, sedie e sgabelli da bar e un armadio sono la scenografia che si intravede nei tagli di luci, squarci lunari, giochi di torce e di resistenze elettriche. Dall’armadio una sorta di luogo della memoria, vengono fuori costumi e personaggi, tornano così alla mente le grandi figure scespiriane, gli eroi della drammaturgia elisabettiana, le vittime, i sicari e le comparse di quella tradizione teatrale. Insorgono con violenza immagini tratte dal melodramma verdiano. Sono i figli che giocano la mancanza e l’assenza dei padri. Spiccano in questo caleidoscopio di personaggi Amleto e Otello, uno che si risolve nella non-azione l’altro che agisce. L’unica attrice che partecipa al gioco teatrale fa intravedere le ombre di Ofelia, Desdemona e Lady Macbeth. Un po’ alla volta questi personaggi e riferimenti passano in secondo piano e i due si preparano per l’incontro più importante: si travestono, trasformano come per prepararsi a una festa, l’ultima festa dove incontreranno se stessi. E qui avviene la rivolta, lo scontro e, nello stesso tempo, il crollo di questo mondo.
Stralci di recensioni
Dal lato della “ricerca” l’attesa finale si concentrava su “Mucciana City” di Alfonso Santagata e Claudio Morganti, una coppia attiva da circa un lustro, e molto apprezzata per la realizzazione del “Calapranzi” di Harold Pinter. Anche in “Mucciana City” aleggia l’atmosfera pinteriana, di paura ed insidia, se bene la traccia sulla quale ci si muove sia piuttosto offerta dalla tragedia elisabettiana, e più direttamente da Shakespeare (Amleto e Otello). Santagata e Morganti (in abiti moderni) ci appaiono come due sicari capitati in una tenebrosa città, per una qualche missione: nel loro comportamento tra simulacri di presenze umane (manichini) e qualche corpo vivente, c’è del resto più timore che minaccia. Una figura femminile di vittima designata(Ofelia o Desdemona) contribuisce ad annodare e dipanare la fosca quanto enigmatica vicenda che sul piano visivo risente l’influenza di certo cinema americano.
di Aggeo Savioli, da L’UNITA’, 23 ottobre 1984
La violenza fisica, segnale caratteristico di molti lavori di Santagata – Moganti, diviene mentale ossessione, delirio verbale, aggressivo sì ma venata di un mistero che dell’ossessione onirica esalta il parossismo, l’assurdo, la paura proveniente dalla sospensione del logico. A “Mucciana City” per un funerale si ritrovano due amici, l’uno specchio dell’altro, l’uno complice e succube dell’altro. I parenti del morto, manichini metafisici, mimetici di un finto compianto, divengono di volta in volta personaggi reali, in progressivo delirare tra dubbi e certezze. Una donna, simbolo di lussuria e specchio a sua volta di brame inconfessate dei due, allestisce una sarabanda trasgressiva l senso comune, in un continuo andirivieni tra letto di copula e letto di morte. Il testo da puro linguaggio delirante perviene, nella figurazioni e nel movimento, ad una sua costituzione drammaturgica conclusa, definita, teatralmente teatrale.
di Giorgio Sebastiano Brizio, da AVANTI, 23 ottobre 1984
Tutt’altra cosa è “Mucciana City”, di quella strana società d’attori formata da Alfonso Santagata e Claudio Morganti, esploratori teatrali dei margini e dell’insensatezze e della degradazione del senso, ma non per ricerca formale; piuttosto come esperienza soggettiva autentica e dunque rischiosa. “Katzenmacher” il loro primo spettacolo, mostrava due emigranti molto disgraziati e molto incapaci di comunicare in una baracca, ricordando qualcosa del vecchio Leo, poi vennero ad altri lavori assai diversi, ma sempre i due hanno mantenuto il linguaggio scenico violento e mentale, non psicologico che ricorda le maschere, o quei personaggi quasi fissi del teatro napoletano. Oggi Santagata e Morganti provano a mettersi accanto per la prima volta altri due attori e in particolare una presenza femminile molto forte ed intensa, quella di Silvia Pasello. “Mucciana City” è il posto in cui i due arrivano all’inizio dello spettacolo attraversando la platea sotto un ombrello sgocciolante, è un luogo comune del cinema dell’orrore, una “città dei morti viventi” ma è anche con molta evidenza il teatro, istituzione e storia. Non a caso vi si delineano situazioni prese a prestito da Shakespeare, come batture intere da Amleto e da Otello. In fine come sempre Santagata e Morganti questo è il luogo molto privato, uno spazio di conflitti e fantasie personali: la forza, la paura, il sesso di una specie di umanità dimezzata, senza spazio né tempo significativo. Facile leggere questo spettacolo come una specie di Rocky Horror, una celebrazione di gusto punk; ma sarebbe una mezza verità. Bisogna cercarci Totò, anche Scarpetta, e da un altro punto di vista molto Bechett e Pinter ma quel che conta non sono questi riferimenti. Piuttosto qui c’è una intuizione concreta e originale della realtà contemporanea, un irruzione di contenuti normalmente rimossi, una grande sincerità in cui è possibile rispecchiarsi. E questo nonostante tanta degradazione o proprio il coraggio di farla vedere, rendere bella “Mucciana City”
di Ugo Volli, da LA REPUBBICA, 23 ottobre 1984
Con un breve spettacolo che muove da Shakespeare per liberamente sviluppare una allusiva vicenda di Humor nero si è concluso al Goldoni il ventiduesimo Festival internazionale della prosa. “Mucciana city” del pugliese Alfonso Santaga e del genovese Claudio Morganti si richiama alle accostate vicende di Amleto e di Otello diretti rispettivamente a campioni l’uno della inazione e l’altro dell’azione, entrambi attirati da una Ofelia – Desdemona in una serie di trappole da romanzo giallo. Ma non a caso il mini dramma degli ex – compagni di Carlo Cecchi è stato iscritto nella sezione dedicata al “teatro nel teatro”. Infatti gli insistiti richiami agli accadimenti della reggia di Elsinore o all’altrettanto tragica vicenda di Cipro non costituiscono che il sottofondo su cui si sviluppa una parabola meta-teatrale. “Mucciana city” è una simbolica città sepolta a cui arrivano fra tuoni, lampi e pioggia, due sconosciuti le cui torce illuminano immobili manichini. Fra i pupazzi è seduta una donna, appunto Ofelia – Desdemona, che attrae i visitatori, in un viluppo di situazioni mutate da Shakespeare attraverso le quali si arriva a celebrare insieme l’apoteosi e il funerale del teatro.
da IL GIORNALE, 22 ottobre 1984
Ultimo a debuttare della nutrita pattuglia del nuovo teatro italiano è il due Santagata e Morganti, un gruppo che da diversi anni sviluppa una ricerca molto personale che parte dalla lezione registica di Carlo Cecchi per approdare a un mondo un po’ allucinato ma molto fisico, di una degradata quotidianità. Ora, con Mucciana City questo sottomondo è reso più astratto, più interiore, già sulla scena tutta buia in cui arrivano, da fuori, dalla platea, gli omini gocciolanti di pioggia. Luogo misterioso popolato di fantasmi congelati in rigide forme di manichini. Qualcosa si muove, una figura di donna; e con lei un’azione, il gioco del teatro. Quello spazio indefinito, in cui spicca solo un grande armadio che attraverso lo specchio mostra una vita inesistente, si popola delle ombre dei grandi drammi shakespeariani, di uccisioni e gelosie, di Amleto e Otello. E ai due tocca recitarla la parte, da comparse a cui è affidato il compito di agire, non molto diversamente dai due sicari del Calapranzi di Pinter, che non a caso era stata la precedente messa in scena di Santagata e Morganti. Se ne fanno protagonisti, complici in tutto, nei frusciati abiti di plastica nera come nei sentimenti (“Ci tradisce” dice l’uno all’altro, di lei). Per essere in fine inghiottiti anche loro, manichini tra gli altri, da questa casa di morti.
di Gianni Manzella e Gianfranco Capitta, da IL MANIFESTO, 23 ottobre 1984
I due personaggi sinistri arrivano grondanti d’acqua complici spregiudicati di una nuova losca avventura, ancora una vota. Si fanno strada nel buio con una torcia, sino a rivelare tutta la scena: si imbattono in questi abitanti morti e li scuotono, li violentano, dialogano con loro istericamente, gli gridano in faccia. Scaricano tanta di quella tensione aggressiva da sfiorare il corto circuito nervoso: grida, farfugliamenti, una drastica rullata di tamburo e netto, violento, arriva un’attacco epilettico. O qualcosa di molto simile. L’adrenalina si spreca, si metabolizza un nervosismo, una tensione che scarica e ricarica, come una dinamo, gli attori. Niente psicodramma comunque. Il gioco è teso, crudele, ma talmente esasperato, espressionista, da diventare comico.
IL MATTINO, 23 ottobre 1984